Questa storia comincia più o meno così: erano le 4.55 di mattina, interno di una casa ancora buia, un letto disfatto, il display di uno smartphone acceso e il mio dito che scorre tra i vari titoli dell’OPAC, la Rete Bibliotecaria Bresciana e Cremonese con la chiave di ricerca “cancro”.
Da oggi al tre luglio dovrei riuscire a condensare la mia fiducia nella scienza e la mia fede non sempre pervenuta in un flusso costante e inarrestabile di speranza. Mi chiedo cosa possa fare per dare più valore a questo periodo, qualsiasi cosa accada in futuro, per dargli il massimo del significato: essenza di vita, non vita allungata con perdite di tempo e orgoglio e pigrizia, ma essenza di vita, la linfa più pura e preziosa che rimane se togliamo le impurità. Impurità, anche dette cazzate.
Finora mi sembrava di essere stata abbastanza brava, ma oggi mica tanto. La mia razionalità mi fa apparire controllata ed equilibrata, dico: “non possiamo sapere dove starai tu, proprio tu, con la tua storia unica, quale puntino percentuale sarai nella torta delle statistiche legate a questa malattia”. E ci credo davvero. Ognuno è talmente unico che non si sa mai, fino alla fine, come risponderà il fisico alla terapia e quali altre variabili non troppo conosciute potrebbero intervenire. “Non possiamo intervenire sullo stato iniziale; certo, nessuno vorrebbe ammalarsi, però l’importante è fare quello che è in nostro potere fare e tu lo stai già facendo. Il tuo unico compito è cercare di stare bene mentre la terapia lavora. Poi vedremo.”
Mia mamma è quella che è andata da sola in pronto soccorso e mi ha chiamato dopo quattro ore, quando le hanno detto che l’avrebbero ricoverata per il sospetto di carcinosi. Ed è la stessa che, nell’unico pomeriggio della settimana scorsa in cui non c’ero perché appena partita per Parigi, è andata da sola a comprarsi la parrucca e da sola è andata all’ospedale per farsi dire i risultati dell’esame istologico: tumore in stadio avanzato, del tipo con maggiore malignità, inoperabile perché ha attaccato vasi sanguigni vitali. E io che da Parigi mi domandavo come mai fosse così laconica nelle sue risposte su whatsapp. “Tutto ok”, mi rispondeva.
Ora, non è che cambi molto tra oggi e la settimana scorsa. Sapevo già che avesse un tumore e che fosse costretta a curarsi altrimenti non supererà l’anno. Così le han detto. Però l’insieme delle parole del referto unite al fatto che sia andata da sola, sommate a mio padre che se è a casa continua a urlare e che altrimenti la lascia sola, rendono il tutto più difficile da metabolizzare. Adesso vado a controllare il calendario, non sia mai che c’ho pure la sfiga di essere in fase pre, eh!
Dicevo, per la parte razionale siamo a posto. C’è, bella presente, roccia per gli emotivi nelle situazioni critiche. Calma e sangue freddo in tempi di crisi: sono io, parlano di me.
Poi c’è la fede. Un tempo non troppo lontano, ero davvero fervente. Con “davvero” intendo in modo talmente acceso che tutti i miei amici che si ritenevano credenti da sempre, mi guardavano con curiosità, alcuni invidia. Credevo in Dio in modo talmente spregiudicato che la mia fede era cresciuta nelle provocazioni che avanzavo in ogni situazione, nelle domande prive di filtro tipiche dei bambini che scoprono il mondo solo in quel momento. Parlo al passato perché ora non sono più così accesa, non sono più una fiaccola per chi mi sta accanto da quel punto di vista e arranco nella fedeltà in una relazione che a volte non capisco. In ogni caso, ci sto dentro. Credo, in un modo pacato che a volte sembra semplicemente spento; un rivolo tenace in fondo in fondo scorre dentro l’anima e mi lavora da dentro, scavando un piccolo solco che mi tiene legata alla relazione con Dio. Uno dice “e che ci fai con Dio in questa situazione?”. Non so bene, ho giocato la carta di dire a mia mamma “Cos’hai da perdere? Perché non andiamo a Medjugorie?” ma lei mi ha risposto che la vede come una modalità opportunistica e nessuna delle due è sufficientemente motivata da trascinare l’altra.
L’unica cosa certa che so è che, nella fede, credo nello Spirito Santo. E allora, chiedo che invece di venire da me (che prego, vado a messa, etc.), se ne vada da lei per infonderle un po’ di pace e tanta di quella tenacia invisibile che ti rende forte e flessibile come un cavo d’acciaio, di quelli fatti con mille fili sottili che ingombrano poco ma possono sostenere pesi incredibili.
Quindi, abbiamo detto:
razionalità ✓
fede ✓
cosa resta?
Resta che vorrei trovare la formula magica per identificare l’essenza di vita per questo periodo e mi chiedevo: cosa potrei fare per essere più vicina, non solo fisicamente, ma anche emotivamente a mia mamma? Non solo rassicurandola razionalmente e vegliando su di lei spiritualmente, ma proprio, concretamente, per raggiungere quell’intimità che forse non abbiamo nemmeno mai avuto. Perché mi auguro che lei guarisca pienamente e allora avremo imparato finalmente a vivere in modo intensamente autentico il rapporto madre-figlia. E perché, se si posizionasse nelle fetta della torta statistica di quelli che non ce la fanno, io non abbia rimpianti e possa andare a ritroso nella storia degli ultimi mesi e leggere e rileggere che più di così non potevo fare, che il resto era fuori dalla mia portata e dal mio controllo.
Ho pensato che potrei raccogliere le sue memorie, lei mi racconta e io intanto scrivo. Ma non sarebbe freddo e meccanico? Potrei semplicemente chiederle delle storie e ascoltarla. Il problema è che non siamo abituate a questo tipo di conversazioni, servirebbe uno spunto che ci motivi a farlo in modo costante e metodico. Mi piacerebbe farlo, anche per lei, perché riveda la sua vita e faccia pace con il suo passato. Qualunque cosa succeda, sarebbe positivo.
Il decluttering applicato ai ricordi di una vita, invece che al guardaroba. O forse potremmo partire proprio da lì, dagli oggetti, e legarci le storie di conseguenza. Vediamo.